I prodotti puramente vegetali non possono, in linea di principio, essere commercializzati con denominazioni come “latte”, “crema di latte o panna”, “burro”, “formaggio” e “yogurt”.
Nemmeno nel caso in cui figurino indicazioni descrittive o esplicative che ne indichino l’origine, i prodotti a base vegetale possono essere etichettati con le medesime denominazioni tipicamente utilizzate per quelli a base animale.
Sono queste le conclusioni cui è giunta pochi giorni fa la settima sezione della Corte di Giustizia, chiamata ad intervenire nella causa promossa da un’associazione tedesca contro una ditta connazionale, ritenuta colpevole di aver impropriamente definito “latte”, “formaggio” e “burro” prodotti di origine vegetariana e vegana.
Con pronuncia dello scorso 14 giugno, i giudici UE, interpellati dal Tribunale regionale investito della vicenda, chiariscono che la normativa comunitaria in materia di denominazione di latte e prodotti caseari (Reg. n. 1308/2013) riserva, ai fini di commercializzazione e pubblicità, la definizione di “latte” alla bevanda di origine animale, e quelle di “burro”, “crema di latte o panna”, “chantilly“, “formaggio” e “yogurt” ai soli suoi derivati (alcune eccezioni sono espressamente previste all’allegato I della decisione n. 2010/791/UE).
Tale premura risponde ad un esigenza di chiarezza al consumatore, che non può essere messo nella condizione di “confondere” i prodotti, la loro origine e composizione. Inoltre tutela le condizioni economiche di produzione e di commercializzazione, la concorrenza e la qualità degli alimenti.
Stando alla normativa UE così come interpretata dalla Corte di Giustizia, né soia né tofu possono dunque essere definite latte o formaggio, e ciò a prescindere da eventuali specifiche sull’origine del prodotto finito le quali, per definizione, non possono in nessun caso escludere il rischio di confusione nel consumatore.
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