Non è solo la malattia mentale a poter escludere la capacità d’intendere e volere.

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Con la recente riforma “Orlando” il Legislatore ha incaricato il Governo di una “revisione del modello definitorio dell’infermità”  (cfr. art. 1, co. 16, lett. c, L. 103/17) così da attribuire, a fini di esclusione o limitazione della capacità di intendere e volere, rilevanza anche ai disturbi di personalità.

Entro il prossimo agosto dovrebbe dunque essere emanato un decreto legislativo in grado di adeguare il nostro sistema sanzionatorio ai più recenti approdi della scienza psichiatrica, i quali non riconoscono più nelle sole malattie mentali in senso stretto un vizio tale da incidere sulla imputabilità di un soggetto.

L’intenzione del Legislatore è quella di cristallizzare le conclusioni già raggiunte dalla Suprema Corte a Sezione Unite con sentenza n. 9163 del 2005, per la quale anche i disturbi di personalità particolarmente gravi e invalidanti possono essere causa di esclusione o di grande diminuzione della capacità di intendere e di volere.

Secondo l’ormai risalente pronuncia, perché si possa parlare di incapacità ai sensi degli artt. 88 e 89 cp è infatti sufficiente si sia determinata nel soggetto una grave compromissione della percezione del disvalore di quanto commesso, oltre che del significato del trattamento punitivo che ne consegue. E ciò ben potrebbe essere anche in caso di mero disturbo di personalità in assenza di malattia mentale.

Certo è che non basta avere problemi caratteriali o un disturbo psichiatrico o psicologico per essere ritenuti non imputabili. Oltre ad un attento esame sulla gravità della patologia, infatti, dovrà sempre realizzarsi una valutazione concreta su come la stessa abbia inciso, al momento del fatto, sia sulla condotta che sulla capacità di autodeterminazione del soggetto.

Inoltre, per parlarsi di mancata o parziale capacità per vizio di mente, il reato dovrà sempre e comunque essere stato commesso in ragione della malattia o del disturbo ritenuto invalidante.

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